mercoledì, giugno 28, 2006

Dal Corriere della Sera del 18 Giugno 2006

Aggiungo un altro interessante articolo di Ernesto Galli Della Loggia pubblicato sul Corriere della Sera del 18 giugno 2006.

Il Dialogo Finito con i Cattolici
SINISTRA E VALORI

di Ernesto Galli Della Loggia

Senza troppi clamori si sta consumando sulla scena politica italiana un decesso illustre: quello del cattocomunismo. È questo il significato alla fine più importante delle cronache delle ultime settimane, anche se, come è ovvio, la fine che oggi si annuncia viene da lontano, è il frutto di almeno due grandi fenomeni congiunti all' opera da tempo. Il primo fenomeno è rappresentato dal mutamento sostanziale dell' agenda politica italiana come del resto di tutti i Paesi occidentali. Ormai il grande scontro tra capitale e lavoro, tra la prospettiva proprietario-capitalistica e quella statal-socialista, che ha dominato per più di un secolo la vita pubblica, è alle nostre spalle Di conseguenza è alle nostre spalle anche tutta una serie di «spartiacque» che sono stati decisivi per determinare storicamente l' identità della destra e della sinistra. Guardiamo al panorama dei nostri maggiori problemi attuali: la competizione con i nuovi attori dello sviluppo mondiale (Cina, India, ecc.), l' ondata migratoria, la crisi demografica, l' insostenibilità della spesa assistenziale, il declino della stabilità del lavoro e della sua cultura. Ebbene, quale di questi problemi nasce dallo scontro tra capitale e lavoro? Quale di questi problemi ha soluzioni alternative che possano realmente dirsi «di destra» e «di sinistra»? Nessuno, direi. Si aggiunga, almeno nel nostro continente, un ulteriore elemento decisivo: il fatto che ormai, per tutto ciò che riguarda l' ambito economico-sociale ad avere la parola decisiva non sono quasi più i parlamenti e i governi nazionali, ma l' Unione Europea. È a Bruxelles e a Francoforte che si decidono i parametri vincolanti delle politiche economico-monetarie da cui dipende tutto. Ed è stato per l' appunto grazie a Bruxelles e Francoforte che da anni si è imposta dovunque la svolta liberista alla quale, oggi, anche i più riottosi ministri di Rifondazione comunista sono obbligati ad adeguarsi. Insomma, in Italia come dappertutto non c' è più spazio per «terze vie», «elementi di socialismo» o altre sperimentali velleità, alternative a quanto stabilito in sede europea. È questo fatto, insieme al mutamento radicale del quadro socio-economico, che ha determinato la fine della centralità nel dibattito politico dei paesi europei, e dunque anche dell' Italia, dei temi strettamente economici, un tempo invece dominanti. Il vuoto così creatosi è riempito ogni giorno di più da temi immateriali, in particolare da quelli etici riguardanti l' esistenza umana e gli stili di vita, perlopiù messi all' ordine del giorno dai progressi della scienza. Attualmente è intorno a questioni come la riproduzione artificiale della vita, la sostituibilità di parti del corpo, o la possibilità di autodeterminazione della morte, ma anche l' ammissibilità del matrimonio tra omosessuali, l' adozione di minori da parte degli stessi, è intorno a questi temi soprattutto che si accende il dibattito politico. Ed è in relazione ad essi che si è verificato il secondo fenomeno che ha portato in Italia alla fine del cattocomunismo: cioè il cambiamento deciso della composizione sociale e quindi dell' ideologia della sinistra. La fine della centralità dello scontro capitale-lavoro - o comunque il suo rimodellarsi secondo prospettive inedite -, unitamente alla deindustrializzazione, ha prodotto l' allontanamento dalla sinistra di quote consistenti di lavoratori industriali (ne sono prova i risultati elettorali delle regioni del Nord). Gli antichi caratteri «di classe» della sinistra sono ormai sul punto di sparire, e la prevalente base operaia, contadina e di popolo minuto di una volta è stata progressivamente sostituita dai ceti medi del pubblico impiego, dagli insegnanti, dagli addetti alle grandi corporazioni «civili» (magistrati, professori universitari, giornalisti), dalla media e alta borghesia. Questi gruppi sociali sono spesso interessati sì, economicamente, alla protezione «pubblica» del proprio reddito/status, ma dal punto di vista ideologico non conservano più nulla delle vecchie posizioni che per decenni hanno costituito l' identità diciamo così etico-pubblica del vecchio Partito comunista e della sinistra in genere. Non più il sospetto per tutto ciò che sapesse di individualistico, di piacere fine a se stesso, di «borghese», non più diffidenza per i valori acquisitivi, non più disponibilità a pensare la vita soprattutto come impegno, e neppure, ormai, la più piccola traccia di quel tanto di moralismo magari un po' ipocrita, di esibito perbenismo che caratterizzava quegli orizzonti di un tempo. Ora, all' opposto, i nuovi ceti di riferimento della sinistra sono tutti immersi in un' atmosfera che appare dominata dalla più radicale soggettività, nonché da una morale di tipo individualistico-libertario (si ha il diritto di fare ciò che si vuole, basta che non si danneggi un altro; quanto allo Stato, esso non deve immischiarsi di nulla), pronti a identificarsi con tutte le mode, i tic, i gusti, i consumi della modernità purché, beninteso, rivestiti di un' opportuna patina di «eleganza». Si comprende senza fatica come i due fenomeni di cui ho fin qui parlato - la conversione dall' economia all' etica dell' agenda politica, e l' avvento a sinistra in posizione dominante di un' ideologia di tipo acquisitivo-libertario - sconvolgano alla radice il panorama sul cui sfondo si è mosso per decenni il cattocomunismo. Il quale ha sempre conservato una natura magmatica, ha sempre rifuggito da teorizzazioni precise (con l' eccezione forse di quelle compiute in anni ormai remoti da Franco Rodano e Claudio Napoleoni), ma forse proprio per questo ha rappresentato una prospettiva e vorrei dire di più: una suggestione potente che ha attraversato tutta la vita politica italiana. La prospettiva, cioè, di un incontro tra due «popoli» e due «culture popolari» all' insegna della solidarietà sociale, della comune rappresentanza dell' «umile Italia» delle masse raccolte all' ombra dei campanili e dell' idea socialista, della lotta contro la «miseria», della simpatia per il Terzo Mondo e della diffidenza verso gli Stati Uniti, e infine di una costumata intima, sobrietà, di un senso alto e serio della vita. Il tutto, come si capisce, in polemica contro il Paese dei «signori», contro l' Italia della «borghesia», la sua cultura castale, la sua mentalità egoista, gerarchica, malthusiana, le sue simpatie atlantiche. Chi vuole cogliere di quante cose diverse, ma pure tutte convergenti, si alimentasse il cattocomunismo non ha che da leggere qualche pagina di Pasolini o di Don Milani, rivedere qualche vecchio film neorealista di Rossellini o De Sica, scorrere qualche discorso di Dossetti o qualche nota riservata di Antonio Tatò per Berlinguer. Il cattocomunismo ha rappresentato lo sfondo del grande disegno togliattiano dell' «incontro con i cattolici», che per decenni ha dominato la politica della sinistra italiana, ne è stato, pur tra non poche critiche, come una linea-guida essenziale. Un disegno che nel mondo cattolico-democristiano (non esclusa la Chiesa) ha trovato sempre interlocutori pronti e attentissimi. Questa trama antica e tenace di relazioni, di intese, di sintonie non dette, di affinità profonde, sta oggi andando in pezzi. È lacerata dall' impossibilità di trovare una base economica significativa in comune nel mondo nuovo dominato dal liberismo brussellese; dalla eguale impossibilità di trovare una terza via ideologica in comune, stante l' obbligatoria reverenza liberaldemocratica a cui tutti sono ormai tenuti. Ma soprattutto la prospettiva cattocomunista è squarciata dal dissidio radicale - e che sembra destinato a radicalizzarsi sempre di più - proprio su quel terreno dei valori che un tempo, viceversa, era forse quello che più teneva insieme cattolici e comunisti. Questi ultimi, divenuti post, e andata perduta ormai ogni vestigia sociale di «popolo», appaiono totalmente assorbiti entro un orizzonte «borghese» che in nulla più si distingue da quello del resto della società italiana, un orizzonte definito da un fortissimo soggettivismo etico, da una spinta edonistico-acquisitiva, da un programmatico relativismo culturale, perfino ormai tentato dai fremiti dell' anticlericalismo. Il mondo cattolico e la Chiesa si trovano invece sulla sponda opposta: impegnati, come sanno e come possono, a combattere proprio contro il bagaglio etico e ideologico che oggi a sinistra raccoglie i maggiori consensi. È, la loro, una battaglia disperata, ma, almeno a giudizio di chi scrive, nobile e importante come spesso sono le battaglie delle minoranze contro le opinioni, e l' inevitabile conformismo, delle maggioranze. Quale che sia il suo esito, appare però chiaro che comunque anche su questo piano l' antico dialogo con i cattolici tanto caro alla sinistra di ispirazione comunista ha ormai perduto ogni possibile verosimiglianza; e con esso sembra ormai finita pure la lunga stagione del cattocomunismo.

*** Politica e fede *** Il Movimento dei cattolici comunisti, poi denominato Sinistra cristiana, venne fondato da Franco Rodano durante la Resistenza e nel dicembre 1945 confluì nel Pci Rodano fu un ascoltato consigliere di Enrico Berlinguer ed è passato alla storia come l' ideologo della strategia del compromesso storico Il termine cattocomunismo è peraltro usato in modo più generico per riferirsi ai cattolici schierati a sinistra (Raniero La Valle, Adriano Ossicini) o comunque critici verso il capitalismo e sensibili alle istanze di giustizia sociale (come Giuseppe Dossetti e don Lorenzo Milani)

18 giugno 2006

lunedì, giugno 26, 2006

Dal Corriere della Sera del 26 giugno 2006

Riporto un articolo di Ernesto Galli della Loggia, apparso oggi sul Corriere della Sera.
Mi sembra ci siano alcuni interessanti spunti di riflessione utili a capire alcune dinamiche sociali di questi anni.

La modernità e i rapporti con la Chiesa

I valori mutati dalla sinistra

Di Ernesto Galli della Loggia



È singolare come a volte la sinistra dimentichi in fretta i suoi eroi e le loro idee: per esempio come essa si sia dimenticata in fretta di Pier Paolo Pasolini. Dopo averlo trasformato in una vera e propria icona di spregiudicatezza intellettuale, oggi sembra non ricordarsi quasi per nulla di ciò che egli disse nell’Italia della grande trasformazione degli anni Settanta. La ragione sta forse nel fatto che lo scrittore friulano vide allora in anticipo quell’insieme di processi sociali che nei decenni seguenti avrebbero mutato completamente il volto non solo del Paese ma soprattutto della sinistra italiana stessa, e li analizzò in modi che, proprio perché poi confermati dalla realtà, oggi risultano alquanto imbarazzanti. Come si è visto nella recente discussione sulla fine del «cattocomunismo». Tre i temi di fondo di quell’analisi, sviluppata da Pasolini specialmente negli «Scritti corsari». Riduco all’essenziale:
1) Sono i ceti medi i veri protagonisti della modernizzazione del costume italiano, i cui valori da «sanfedisti e clericali» di un tempo divengono ora quelli dell’«ideologia edonistica del consumo» a sfondo individualistico con l’inevitabile appendice del «laicismo» e della «tolleranza»;
2) ma questo mutamento non ha alcun significato politico-ideologico di tipo democratico o comunque progressivo, così come non ce l’ha la vittoria del «no» al referendum sul divorzio o la battaglia per l’aborto. Si tratta di un puro e semplice adeguamento ai tempi: «Oggi - scrive Pasolini - la libertà sessuale della maggioranza (il corsivo è mio ) è in realtà (…) un obbligo, un dovere sociale»;
3) la Chiesa cattolica, «gettata a mare cinicamente» dai ceti medi insieme ai valori tradizionali, è la principale vittima sociale del nuovo panorama ideologico; fino al punto che lo scrittore auspica che essa, invece di «accettare passivamente la propria liquidazione», passi «all’opposizione»: «la Chiesa potrebbe essere la guida grandiosa ma non autoritaria di tutti coloro che rifiutano (e parla un marxista, proprio in quanto marxista) il nuovo potere consumistico (…) falsamente tollerante». Come negare che queste affermazioni descrivano in nuce ma con sufficiente esattezza alcuni mutamenti dell’antropologia italiana, i quali a loro volta hanno inciso profondamente sulla composizione sociale, i valori e gli orientamenti ideologici della sinistra, in particolare di quella postcomunista? Invece proprio da questo orecchio la cultura della sinistra non vuole sentirci. Pasolini, insomma, deve restare un santino da omaggiare, ma nulla di più. Tutto ciò che in qualche modo richiama le sue idee va respinto con sdegno: il dire per esempio che oggi la sinistra politica è diventata per molta parte lo schieramento dei ceti medi dai valori individualistico-libertari; l’affermare che in questa posizione non vi è nulla di particolarmente «coraggioso», «democratico» o «anticonformista» ma semmai il contrario, dal momento che quella è la posizione di gran lunga maggioritaria in tutta l’area occidentale; che, di conseguenza, sono coloro che in qualche modo vi si oppongono, a cominciare dalla Chiesa, a sostenere un punto di vista socialmente minoritario e dunque, se non altro per questo, più coraggioso. Si tratta di banali verità suffragate da mille prove, eppure enunciarle scatena ancora oggi un coro di ripulse.
Evidentemente esse toccano un nervo scoperto, e in effetti è proprio così. Quelle banali verità, infatti, mandano all’aria l’idea che l’opinione media di sinistra ha di sé, minano l’immagine della sua identità che, proprio perché sempre più vacillante, con tanta più forza e a qualunque costo va invece ribadita. Un’identità che è obbligatoriamente sentita come quella di un’eterna minoranza sempre in lotta contro forze soverchianti, contro nemici agguerriti e potenti. Tutto l’immaginario della sinistra, tutte le autorappresentazioni fantastiche di sé (dalle canzoni, agli spettacoli di Dario Fo, al modo di presentarsi dei suoi menestrelli televisivi), tutto è in certo senso costruito su questo presupposto eroico-minoritario. Esso serve a conferire grandezza e dignità morale, a far sentire sempre intimamente migliori dei propri avversari. Stare dalla parte della storia, dell’evoluzione «spontanea» della società, può soddisfare chi ancora si riconosce nel marxismo (ormai peraltro pochissimi) ma certo non implica nessun prestigio etico: la sinistra invece ha un forte bisogno psicologico di sentirsi innanzi tutto buona. E cioè, per l’appunto, di sentirsi sempre e comunque «contro», in minoranza, controcorrente nel mare della storia: paradossalmente anche quando, invece, essa vi naviga con il favore dei venti.
Anche da questo bisogno di minoritarismo nasce il rapporto psicologicamente e culturalmente difficile della sinistra con la modernità: di cui essa è da decenni e per molti versi, specie nel campo dei valori diffusi, degli stili di vita accreditati, delle mode, un’avanguardia conclamata, ma rispetto alla quale deve, invece, sempre trovare il modo di polemizzare, non potendo accettare di stare dalla parte dei tempi, cioè di qualcosa che per definizione coinvolge ed è rappresentativa dei «più» anziché dei «meno». Da qui, allo stesso modo - dal bisogno di considerarsi essa sola destinata a recitare il ruolo di minoranza - da qui anche, infine, il suo non riuscire a intendere affatto le obiezioni della Chiesa alla ormai proclamata e ultramaggioritaria libertà moderna in tema di ingegneria genetica, di orientamenti sessuali e di cose analoghe: il suo travisare tali obiezioni facendole passare come espressione di un dogmatismo chiuso e nella sua arroganza potentissimo, mentre si tratta solo del disperato tentativo, mi pare, di limitare il dilagare distruttivo dei tempi.
Si tratta di banali verità suffragate da mille prove, eppure enunciarle scatena ancora oggi un coro di ripulse. Evidentemente esse toccano un nervo scoperto, e in effetti è proprio così. Quelle banali verità, infatti, mandano all'aria l'idea che l'opinione media di sinistra ha di sé, minano l'immagine della sua identità che, proprio perché sempre più vacillante, con tanta più forza e a qualunque costo va invece ribadita. Un'identità che è obbligatoriamente sentita come quella di un'eterna minoranza sempre in lotta contro forze soverchianti, contro nemici agguerriti e potenti. Tutto l'immaginario della sinistra, tutte le autorappresentazioni fantastiche di sé (dalle canzoni, agli spettacoli di Dario Fo, al modo di presentarsi dei suoi menestrelli televisivi), tutto è in certo senso costruito su questo presupposto eroico-minoritario. Esso serve a conferire grandezza e dignità morale, a far sentire sempre intimamente migliori dei propri avversari. Stare dalla parte della storia, dell'evoluzione «spontanea» della società, può soddisfare chi ancora si riconosce nel marxismo (ormai peraltro pochissimi) ma certo non implica nessun prestigio etico: la sinistra invece ha un forte bisogno psicologico di sentirsi innanzi tutto buona.
E cioè, per l'appunto, di sentirsi sempre e comunque «contro», in minoranza, controcorrente nel mare della storia: paradossalmente anche quando, invece, essa vi naviga con il favore dei venti. Anche da questo bisogno di minoritarismo nasce il rapporto psicologicamente e culturalmente difficile della sinistra con la modernità: di cui essa è da decenni e per molti versi, specie nel campo dei valori diffusi, degli stili di vita accreditati, delle mode, un'avanguardia conclamata, ma rispetto alla quale deve, invece, sempre trovare il modo di polemizzare, non potendo accettare di stare dalla parte dei tempi, cioè di qualcosa che per definizione coinvolge ed è rappresentativa dei «più» anziché dei «meno». Da qui, allo stesso modo — dal bisogno di considerarsi essa sola destinata a recitare il ruolo di minoranza — da qui anche, infine, il suo non riuscire a intendere affatto le obiezioni della Chiesa alla ormai proclamata e ultramaggioritaria libertà moderna in tema di ingegneria genetica, di orientamenti sessuali e di cose analoghe: il suo travisare tali obiezioni facendole passare come espressione di un dogmatismo chiuso e nella sua arroganza potentissimo, mentre si tratta solo del disperato tentativo, mi pare, di limitare il dilagare distruttivo dei tempi.

26 giugno 2006

martedì, giugno 13, 2006

Sì al referendum per il dialogo e la riforma

Quarantadue docenti universitari, tra costituzionalisti, giuristi, storici, filosofi, scienziati politici, economisti, hanno sottoscritto un appello promosso dalla Fondazione Magna Carta a favore della riforma della Costituzione e per il “Sì” al referendum confermativo del prossimo 25 e 26 giugno.

Appello:

Il referendum confermativo del 25 e 26 giugno sulla riforma costituzionale costituisce un’importante occasione per compiere una scelta di modernizzazione delle nostre istituzioni.

Il testo sottoposto a referendum:

  1. rafforza la figura del Primo ministro quale leader responsabile di una coalizione; rafforza i poteri del governo in Parlamento e i poteri del Primo ministro all’interno del governo e della maggioranza; egli può nominare e revocare i ministri, come è dappertutto fuorché in Italia, e può proporre al Capo dello Stato lo scioglimento anticipato, potere bilanciato da quello attribuito alla Camera di evitare lo scioglimento stesso mediante l’approvazione di una mozione nella quale la maggioranza espressa dalle elezioni indichi il nome di un nuovo Primo ministro;
  2. affida al Presidente della Repubblica un ruolo di garanzia, disciplinando l’esercizio dei poteri presidenziali di più immediata valenza politica (nomina del Primo ministro e scioglimento) in modo da ridurre il rischio di dannosi dualismi;
  3. supera finalmente, con una scelta coraggiosa, il bicameralismo indifferenziato (un’assurda anomalia italiana), limitando il rapporto fiduciario alla sola Camera dei deputati; si tratta di una scelta essenziale, sia per realizzare un assetto di tipo federale, che presuppone l’istituzione di una Camera federale come sede di raccordo tra Stato e Regioni, sia per evitare che un’eventuale divaricazione nella composizione politica delle due Camere pregiudichi la governabilità e lo stesso bipolarismo;
  4. riduce di un quinto il numero totale dei parlamentari;
  5. corregge in più punti le irragionevoli soluzioni introdotte nei rapporti Stato-Regioni dalla revisione costituzionale operata nel 2001 dal centrosinistra. Quella riforma ha minato gravemente la funzionalità del nostro sistema normativo e istituzionale e ha provocato un fortissimo contenzioso tra Stato e Regioni, ha diffuso incertezza tra i cittadini, le imprese, gli operatori economici. Il testo ora proposto al voto dei cittadini reintroduce il limite dell’interesse nazionale, riconduce allo Stato una serie di materie impropriamente inserite tra le materie di competenza regionale e, nonostante quel che sostengono parole d’ordine falsificanti, attribuisce in esclusiva alle Regioni competenze legislative (in tema di sanità, istruzione e polizia amministrativa) che esse già possiedono.

La riforma non “spezza l’unità del Paese” – anzi la ricrea – né impone la “dittatura del premier”. Essa introduce, invece, innovazioni che consolidano a livello costituzionale l’evoluzione reale della forma di governo, assicurando i necessari cambiamenti istituzionali per la definitiva trasformazione della nostra in una democrazia dell’alternanza, in sintonia con le grandi democrazie europee, ferma restando la intangibilità dei principi fondamentali della Costituzione vigente.
Se prevarrà il “No”, la spinta conservatrice pregiudicherà per molti anni a venire qualsiasi tentativo riformatore della Carta del 1948 che non è più adeguata ad affrontare le grandi sfide del nostro tempo.

Non ci nascondiamo il fatto che la riforma meriti di essere successivamente integrata con alcuni correttivi, che riguardano in particolare:

  • il complesso procedimento legislativo che appare farraginoso, e che rischia di determinare conflitti di competenza tra le due Camere paralizzando l’iter formativo della legge;
  • la forma di governo, ove alcune rigidità finiscono per attribuire poteri di veto e di ricatto a componenti minoritarie della maggioranza;
  • la composizione e il ruolo del Senato, non pienamente rappresentativo delle Regioni e dotato di poteri decisionali che pregiudicherebbero la funzione di indirizzo del Governo;
  • lo statuto dell’opposizione solo abbozzato e che va rafforzato.

Queste incongruenze e difetti riguardano però, in particolare, quelle parti della riforma che entrerebbero in vigore solo in un secondo momento: nel 2011 o nel 2016. E’ questa un’opportunità che consente di conciliare l’esigenza di emendare con urgenza il Titolo V con quella di apportare correzioni, da effettuarsi con metodo auspicabilmente bipartisan, alle parti della riforma che necessitano ancora di riconsiderazione.
Del resto, lo stesso Presidente della Repubblica, nel suo messaggio dopo il giuramento, ha affermato che dopo il voto “si dovrà comunque verificare la possibilità di nuove proposte di riforma capaci di raccogliere il necessario largo consenso in Parlamento”.

Per queste ragioni, i sottoscritti ritengono che il “Si” alla riforma costituisca oggi l’unica possibile scelta per rendere le nostre istituzioni adeguate alle mutate esigenze della società italiana e per giungere a una riforma condivisa e quindi alla legittimazione reciproca degli schieramenti politici.
E si appellano a quanti non hanno abbandonato la speranza che il nostro Paese possa rinnovare le sue istituzioni, perché votare “Sì” al referendum significa impedire che l’ennesima occasione vada perduta.

Firmatari:

Tarcisio AMATO, ordinario di storia delle dottrine politiche nell'Università di Salerno

Paolo ARMAROLI, ordinario di diritto pubblico comparato nell’Università di Genova

Pierluigi BARROTTA, associato di filosofia della scienza nell'Università di Pisa

Sergio BELARDINELLI, ordinario di sociologia nell'Università di Bologna - sede di Forlì

Giuseppe BUTTÀ, ordinario storia delle dottrine politiche nell'Università di Messina

Leonardo CANNAVÒ, ordinario di Metodologia e tecnica della ricerca sociale nell'Università La Sapienza di Roma

Eugenio CAPOZZI, associato di storia contemporanea nell'Università di Napoli

Francesco CAVALLA, ordinario di filosofia del diritto nell'Università di Pisa

Achille CHIAPPETTI, ordinario di diritto pubblico nell’Università La Sapienza di Roma

Claudio CHIOLA, ordinario di diritto pubblico nell’Università La Sapienza di Roma

Dino COFRANCESCO, ordinario di storia delle dottrine politiche nell'Università di Genova

Mario COMBA, ordinario di diritto pubblico comparato nell’Università di Torino

Luigi COMPAGNA, ordinario di storia delle dottrine politiche nell'Università Luiss-Guido Carli di Roma

Raimondo CUBEDDU, ordinario di filosofia politica nell'Università di Pisa

Roberto DE MATTEI, associato di storia moderna nell'Università di Cassino e Vice Presidente del CNR

Giuseppe de VERGOTTINI, ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Bologna

Gianni DONNO, ordinario di storia contemporanea nell'Università di Lecce

Roberto FESTA, ordinario di filosofia della scienza nell'Università di Padova

Tommaso Edoardo FROSINI, ordinario di diritto pubblico comparato nell’Università di Sassari

Carlo FUSARO, ordinario di diritto pubblico comparato nell’Università di Firenze

Sandro GHERRO, ordinario di Diritto Ecclesiastico nell'Università di Padova

Fabio GRASSI ORSINI, ordinario di storia contemporanea nell'Università di Siena

Maurizio GRIFFO, associato di storia delle dottrine politiche nell'Università di Napoli

Guido GUIDI, ordinario di diritto pubblico comparato nell’Università di Urbino

Leonardo LA PUMA, ordinario di storia delle dottrine politiche nell'Università di Lecce

Giorgio LOMBARDI, ordinario di diritto pubblico comparato nell’Università di Torino

Vittorio MATHIEU, Accademia dei Lincei

Manlio MAZZIOTTI di CELSO, emerito di diritto costituzionale nell’Università La Sapienza di Roma

Luigi MELICA, ordinario di diritto pubblico comparato nell’Università di Lecce

Luca MEZZETTI, ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Bologna

Luciano MONTI, docente di politica regionale europea alla Luiss Guido-Carli di Roma

Ida NICOTRA, ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Catania

Giovanni ORSINA, associato di storia contemporanea nell'Università Luiss-Guido Carli di Roma

Giuseppe PENNISI, ordinario di economia Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione, Roma

Francesco PERFETTI, ordinario di storia contemporanea nell'Università Luiss Guido-Carli di Roma

Roberto PERTICI, ordinario di storia contemporanea nell'Università di Bergamo

Angelo Maria PETRONI, ordinario di filosofia della scienza nell'Università di Bologna e Direttore della Scuola Superiore di Pubblica Amministrazione

Giorgio PICCI, ordinario di ingegneria dell'informazione nell'Università di Padova

Giovanni PITRUZZELLA, ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Palermo

Paolo PITTARO, associato di diritto penale nell'Università di Trieste

Domenico SACCO, associato di storia contemporanea nell'Università di Lecce

Giulio Maria SALERNO, ordinario di diritto pubblico nell’Università di Macerata

Giorgio SPANGHER, ordinario di procedura penale nell’Università La Sapienza di Roma e componente del CSM

Mario TRAPANI, ordinario di diritto penale nell’Università di Roma Tre

Sofia VENTURA, associato di scienza politica nell'Università di Bologna - sede di Forlì

Nicolò ZANON, ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Milano

Vincenzo ZENO-ZENCOVICH, ordinario di diritto comparato nell'Università di Roma Tre